Pubblichiamo un’intervista realizzata nel dicembre 2007 dalla studiosa polacca residente a Milano Justyna Korniej e uscita unicamente sulla rivista Stilos.
Andrea Camilleri e la Sicilia, un rapporto che in pochi altri casi è stato così stretto fino a involgere un processo di identificazione. Come Sciascia, Camilleri non fa in ogni suo libro che parlare sempre della Sicilia, come se il suo mondo cominciasse e finisse dentro questa dimensione che – per l’adozione del suo specialissimo linguaggio analogico – assume il senso anche di una koiné.
Che cos’è per lei la sicilianità?
Vorrei partire dalla definizione di questo concetto che Leonardo Sciascia ha dato in “Sicilia e sicilitudine” (La corda pazza) in cui richiama i tratti dei siciliani quali la timidezza, la temerarietà, l’istintiva paura della vita e il conseguente appartarsi, la fierezza, l’arroganza, la follia; e dall’altra parte parla di una riflessione che ha come materia e come oggetto la Sicilia: non senza particolarismo e grettezza, qualche volta; ma più spesso studiando e rappresentando la realtà siciliana e la sicilianità con una forza, un vigore, una compiutezza che arrivano all’intelligenza e al destino dell’umanità tutta.
Lei invece in varie interviste si contraddice: in quella rilasciata nel 1999 a Simona Demontis ha detto: «Non mo parlare di sicilitudine perché in realtà non so cosa sia.
Perché non mi piace. Perché sottintende (o postula) un sentimento, una cognizione di diversità. Francamente, mi secca molto di sentirmi definire “scrittore siciliano”. Sono scrittore italiano nato in Sicilia».
In seguito, nel 2000, a Marcello Sorgi ha risposto: «Alle volte mi chiedono: “lei si sente uno scrittore siciliano?” Io rispondo che sono uno scrittore italiano nato in Sicilia. Poi mi guardo, e mi accorgo che un giro di parole più siciliano di questo è difficile trovarlo». Conferma?
Corrisponde alla realtà. Sciascia dettò un epitaffio diverso da quello poi scelto, che è «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». Prima ne aveva pensato un altro: «Disse e si contraddisse per l’Italia intera». Ora questo fatto che lei, giustamente, chiama una contraddizione perché dire «scrittore italiano nato in Sicilia» è un giro di parole è proprio una forma di difesa perché avverto nel definirmi «scrittore siciliano» come una sorta di mettere dei paletti, dei confini a me e alla mia scrittura e questo mi dà, francamente, un po’ fastidio. Però è vero che con Leonardo non avevamo lo stesso concetto di sicilianità. Anzitutto io detesto, quella sì, veramente, completamente, la sicilitudine perché è mutuata da Léopold Senghor che si riferiva a gente di altro colore di pelle… Loro hanno tutto il diritto di parlare di negritudine mentre noi non abbiamo nessun diritto di parlare di sicilitudine. Possiamo parlare di sicilianità, come si può parlare di napoletaneità e di altre cose. Devo dire che il problema del siciliano è molto più complesso perché il siciliano non ha a mio avviso una faccia sola, un andamento psicologico solo, ce ne ha parecchi…
Sono maschere o contraddizioni?
Maschera o contraddizione: certe volte funzionalmente possono essere adoperate come maschere, non funzionalmente sono contraddizioni. Però sono contraddizioni non finalizzate ma insite proprio nel carattere del siciliano. C’è un’immagine di Brancati che amo ripetere; non ricordo il nome che adopera Brancati, mettiamo che siano due cognomi notissimi: Bianchi e Rossi. Il signor Bianchi abita nello stesso piano e nella stessa casa in cui abita il signor Rossi. Li divide solo un pianerottolo, ma attraversare quel pianerottolo per andare da casa Bianchi a casa Rossi è come fare un viaggio intercontinentale, tanto Bianchi e Rossi sono diversi tra loro pur essendo tutti e due siciliani. Mio nonno era biondo, con gli occhi azzurri e dall’aria leggermente svedese… e ce ne sono tanti in Sicilia, erano i cosiddetti Normanni: mio nonno era uno di loro, ed erano gente a sangue freddo, completamente diversi dalla focosità dei siciliani. Tutte queste cose convivono nel carattere del siciliano; quindi che cos’è un siciliano: il siciliano è una persona assolutamente contraddittoria con se stessa.
Quindi la sicilianità esiste.
Esiste, sì, in questo senso, ma solo in questo senso.
Nei suoi libri lei coscientemente vorrebbe trasmettere qualche idea della Sicilia?
No, coscientemente non so, però, torno a ripetere, è l’unica cosa della quale io so parlare, in fondo. Nel primo romanzo che scrissi c’era una nota che diceva che oggi come oggi è facile ambientare un racconto in una città dove non si è mai stati, tu prendi una guida di Mosca molto ben fatta e ti dicono perfino dove stanno i tabaccai. Il problema non è ambientare una cosa, il problema è solo quello che cerchi nella testa delle persone che stanno lì. Questo io penso di conoscerlo dei siciliani, ho aggiunto anche che nel 99% dei casi sbaglio, l’uno per cento dei casi mi dà la possibilità di scrivere un romanzo.
Nei suoi romanzi, soprattutto i cosiddetti storici, si vedono spesso descrizioni di paesaggi, feste religiose, tradizioni, comportamenti umani, in particolare la follia e la sensualità primordiale, naturale, spontanea. Questi aspetti sono importanti per il carattere dei siciliani di oggi? Il passato, la tradizione?
Oggi si va verso quella che Pasolini chiamava «omologazione». Se io torno in Sicilia, vedo la giovanissima generazione, e comincia a diventare assai difficile capire cos’è siciliano rispetto ad abruzzese: sono simili. Oggi come oggi, credo sia anche la colpa della comunicazione di massa, me ne accorgo per esempio pensando che mentre noi non sapevamo nella nostra infanzia parlare in italiano, ci veniva difficile, ce lo insegnavano a scuola, oggi tutti i bambini siciliani parlano in un modo perfetto perché lo sentono alla televisione: il linguaggio omologato porta alla omologazione dei caratteri. Quindi, anche nei romanzi polizieschi che sarebbero ambientati al giorno d’oggi, quella che descrivo è una società un po’ della mia memoria, memoria alla quale posso lasciare le griglie sul collo nel momento nel quale dico: voglio scrivere un romanzo storico.
A proposito della memoria: volevo chiederle della simbologia dei posti, luoghi, oggetti che si ritrovano, ripetono e che poi richiamano l’opera e il pensiero di Pirandello e Sciascia. Ho in mente l’ulivo saraceno, la rappresentazione della memoria pirandelliana; la linea della palma di cui parla spesso e che rievoca Sciascia in quanto simbolo della mentalità siciliana, omertà, mafia; e poi la Scala dei turchi, come luogo dell’infanzia- Come considera questi simboli della Sicilia?
Devo dire che prima sono stati vissuti e che poi sono divenuti dei simboli, sono diventati dei condensati di memoria e quindi diventano luoghi della memoria quanto furono luoghi dell’esistenza normale, quotidiana e non avevano nessun valore simbolico. Nella campagna di mio nonno dove ho passato tutta l’infanzia, la giovinezza, davanti a quella casa con gli archi, dove oggi c’è un mare di case, e che ora sta andando in rovina, c’erano solo ulivi saraceni che erano di tutte le forme. Ora a Porto Empedocle esiste un ulivo saraceno che è meta di venerazione della gente; l’hanno carotato, gli hanno messo dentro un ago e hanno stabilito che ha mille e passa anni, seicento mi pare: vuol dire seicento anni dopo Gesù Cristo. Come lo era per Pirandello, diventò un luogo supremo della memoria vivente, attiva, perché è vivo, ogni anno mette infatti le sue foglioline come un miracolo.
Come mai ha deciso di ambientare i suoi romanzi in questi tre periodi storici: seconda metà dell’800, anni ’30 del ’900 (nel periodo del fascismo) e tempi odierni?
Sto facendo una sorta di percorso che parte dagli anni postunitari, dell’Unità d’Italia, e arriva fino agli anni del fascismo. Mi riprometto di proseguire ancora per qualche anno cioè di scrivere un romanzo che arriva al 1945. Tutta la letteratura grossa degli italiani di Sicilia da Verga, Capuana, De Roberto nasce proprio dopo l’Unità d’Italia ed è come una difesa di una certa cultura che si sarebbe perduta con l’Unità d’Italia.
Non crede che questi problemi, queste condizioni storico-sociali, le dominazioni e poi anche l’Unità, che ostacolavano la sicilianità, l’identità dei siciliani, possono essere considerate fonte d’ispirazione per gli scrittori siciliani dell’800 e del ’900?
Certo, cioè come una forma di difesa, di conservazione. L’Unità d’Italia, che era inevitabile e storicamente giusta, è stata realizzata nei modi più sbagliati che si potesse fare dai piemontesi. Non è che la Sicilia sia mai stato un paese ricco, come tutti i sud del mondo, però coi Borboni era diverso. Faccio un esempio: al momento dell’Unità d’Italia noi in Sicilia avevamo duemila telai in funzione, telai per produrre le stoffe; e nel giro di due anni vennero chiusi per favorire i telai di Biella. Poi c’è un’altra cosa. Se lei vede, curiosamente, nel 1860, 1865 nella Storia economica della Sicilia di Oddo, che riporta dei grafici molto interessanti, arrivati a un certo punto, la natalità va giù a picco, come crolli di borsa: non nascono più i bambini e nasce quel modo di dire bellissimo, siciliano che non si sa a chi si riferisce mentre invece si riferisce benissimo: «Ci hanno levato il piacere di scopare». Perché questa terribile frase? Perché venne introdotta la leva obbligatoria, il richiamo alle armi obbligatorio che non c’era, ciò che significava che un figlio di contadini nel momento in cui quelle braccia diventavano forza lavoro, e quindi assicuravano un minimo di introito economico, veniva per quattro anni dato al governo. Tanto è vero che ci sono state manifestazioni in cui i giovani chiamati alla leva si presentavano al distretto militare seguiti dai genitori vestiti a lutto stretto perché perdevano il figlio per quattro anni. Sono cose traumatiche e di cui poi Pirandello scriverà ne I vecchi e i giovani.
Ma torniamo ai suoi romanzi storici ’800, ’900…
Allora torno al ciclo… Un altro trauma: il fascismo. Non è cosa da niente, perché lei deve pensare che il centro di infezione mondiale dei fascismi europei è nato in Italia. Qui è un cancro, un tumore e altrove sono metastasi; certo che Hitler era una metastasi che porta alla morte ma è una metastasi, non è il punto originale, il franchismo non è il punto originale, mi spiego? Da qui nasce una mia considerazione: perché a dieci anni io volevo ammazzare delle persone? Perché volevo andare ad ammazzare dei poveri abissini? Era veramente un desiderio sentito da un bambino di dieci anni. Allora che cosa avevano messo in testa a questo bambino di dieci anni? Qui si può benissimo allargare il discorso e dire: che cosa avete messo in testa a un kamikaze che si fa esplodere? Il discorso però è sempre quello, di un innesto micidiale, di chiesa convertita alla politica e della politica che insegna certe cose…
Passiamo a Leonardo Sciascia, sempre presente nei suoi libri, nelle sue affermazioni, allusioni, citazioni: può essere considerato un modello ideologico, letterario, civile, fonte d’ispirazione?
Modello sì, ma civile e non ideologico. A livello ideologico eravamo lontani, io ero comunista e lui visceralmente, anticomunista; cioè dal suo razionalismo, il suo illuminismo, lui considerava il comunismo una fede, quindi una parrocchia accanto alla parrocchia cattolica, e si usciva da una parrocchia per entrare in un’altra. Io avevo un’altra concezione. Quindi ideologicamente no, anzi, semmai abbiamo avuto momenti di scontro, li abbiamo avuti proprio su questo.
Modello civile, allora.
Da questo punto di vista un autentico modello, ma non è solo questo: la sua scrittura per esempio. Se esiste una scrittura lontana dalla mia è quella di Leonardo Sciascia perché Leonardo si era costruito un italiano tagliente e ogni giorno lo affilava.
Diceva che scriveva ogni giorno quattro pagine, e poi il giorno dopo di queste quattro pagine ne riscriveva due…
Esatto, è per arrivare alla precisione di un bisturi, di un laser, proprio dentro all’oggetto del suo pensiero. Io ho una scrittura bastarda, volutamente bastarda, però, lo sa, i libri di Leonardo Sciascia sono lì, fra quei quattro o cinque autori, e Leonardo nel caso specifico proprio per certe posizioni opposte di scrittura e di stile mi serve a ricaricarmi il carburatore, a ricaricarmi le batterie. È un modello opposto, però mi serve.
Sciascia usava certe forme: il giallo da una parte, il romanzo storico (indagine sulla storia «alla Manzoni») dall’altra; usava queste forme per trasmettere valori partendo dall’ideologia, dai valori. Lei tratta la scrittura come divertimento e forse ha scelto queste forme come le più adatte per il divertimento e il gioco letterario, però valori uguali a quelle di Sciascia…
Esatto, io non nego questi valori, partecipo agli stessi valori di Sciascia. Pur partendo da punti opposti… Sono sistemi di contrabbando, dobbiamo contrabbandare delle cose. Io adopero la gerla, quella che i contrabbandieri si portavano sulle spalle, lui adoperava la fascia, quella che si porta elegantemente sulla pancia e non si vede, ma il contrabbando è lo stesso: la merce che contrabbandiamo, almeno io tento di contrabbandare, è quella che lui ha, brillantissimamente, capo-contrabbandiere, contrabbandato.
Ma è vero che, come la forma letteraria, alla fine il risultato è uguale in tutti e due i casi: il romanzo storico (l’indagine storica) e il giallo?
Quello sì, permettono una quantità di contrabbando.
Ma lei in fondo si sente scrittore impegnato o no?
No, ma in fondo ogni scrittore è impegnato all’atto della scrittura.
In che senso? Che cosa vuol dire per lei «scrittore impegnato»?
Ogni scrittore nel momento stesso in cui si mette a scrivere e descrive il proprio ombelico è uno scrittore impegnato. Su questo non c’è il minimo dubbio. Definiamo la parola «impegno»: se la definiamo nei termini di éngagément sartriano ecc., non ci siamo nel modo più assoluto. Come diceva Pirandello, di certe epoche si può mostrare solo il negativo, perché a mostrare il lato positivo si rischia di fare propaganda politica, e lì ti fermi. Allora bisogna andarci cauti sulla parola impegno. Io preferisco scrivere senza alcun proposito di impegno perché, avendo un rapporto critico verso la società, verso certi ordinamenti, un fatto implicito dentro di me mi verrà fuori implicitamente nella scrittura. Se devo prendere posizione preferisco scrivere un articolo di giornale.
Anche questo è l’impegno dello scrittore. Se lei lo firma con il suo cognome, per i lettori ha già una connotazione con la sua persona.
Certo, lo firmo con il mio cognome. Infatti, nella rivista “Micromega”, per otto settimane sta uscendo “Diario di Montalbano”, personaggio che scrive un diario dei fatti politici: quindi «sfrutto» Montalbano in questo senso. In un romanzo non me la sentirei di metterci dentro la politica, potrei tradire il romanzo stesso perché diventa volontaristico e invece non lo deve essere.
Si può dire che il suo, diciamo «impegno» tra virgolette, è sempre maggiore, sta crescendo nel corso del tempo?
All’inizio, anche nei gialli c’erano poche allusioni politiche, adesso ce ne sono sempre di più, e poi anche articoli di politica… Sì, che prima non mi sognavo manco di scrivere. Infatti i primi articoli che ho cominciato a scrivere sui giornali, “Messaggero” o “Repubblica” non trattavano affatto di politica. Quando da noi in Italia c’è stato il referendum (sul divorzio, sull’aborto ecc.) mi sono impegnato politicamente, ho ripreso la tessera del partito che non avevo più, proprio per lavorare dall’interno nella direzione che io credevo e credo tuttora giusta, per convincere i miei stessi compagni, molti dei quali erano restii. Ho preso impegno non di scrittore, ho preso l’impegno da cittadino in quel momento. In questi ultimi tempi credo che l’Italia abbia passato un brutto rischio e dei rischi deve passarne uno peggiore e quindi mi sono sentito in dovere di «impegnarmi», tra virgolette, di più.
Ma il suo impegno è diverso da quello di Sciascia, vero?
Sciascia si impegnò talmente nella politica che si fece eleggere deputato ed era una cosa che gli dava un fastidio enorme, ma (anche lui) lo fece per lavorare all’interno di una commissione, la commissione Moro, per potere accedere ai documenti, ai quali altrimenti, da comune e semplice cittadino, non avrebbe avuto accesso. Il giorno dopo si è dimesso, dopo aver scritto la relazione di minoranza. È stato un cittadino che si è prestato a fare una cosa che non gli piaceva per niente, pur di raggiungere certe verità, che lui credeva di ottenere.
Qual è stata l’influenza di Sciascia su scrittori, artisti, intellettuali del secondo ’900?
Poca…
Secondo lei si può però dividere la letteratura in un prima e in un dopo-Sciascia?
Se lei mi chiede del lavoro degli addetti ai lavori, io dico sì; se lei mi chiede del lavoro di certi critici nei riguardi di Sciascia, io dico no perché lo scrittore Sciascia prima di tutto è difficile che possa rappresentare un modello perché è talmente personale che è veramente difficile. In secondo luogo c’è stata una rimozione di Sciascia, c’è a chi fa paura Sciascia oggi come oggi, mentre è venuta alla luce una continua rivalutazione e rinascita di Pier Paolo Pasolini. E questo è spiegabile perché tanta irrazionalità c’è in Pasolini che pure era una coscienza critica, e tanta razionalità c’è invece in Leonardo Sciascia che era un’altra coscienza critica. Allora nel momento nel quale subentrano le fedi, il credere ecc., è chiaro che Leonardo viene oscurato. Qualcuno me lo deve spiegare perché si fa una guerra in Iraq, ci si dice che ci sono delle armi di distruzione di massa, che bisogna levare queste armi di distruzione…
Si dice… ma nessuno le ha viste.
Si dice infatti, perché le armi di distruzione di massa non esistono. E i due presidenti che hanno promosso questa guerra vengono rieletti a stragrande maggioranza perché un tam tam mediatico ci ha fatto delle fedi di comodo. E allora povero Leonardo, bisogna ri-seppellirlo ancora più profondamente sotto terra.
Quanta importanza hanno gli elementi autobiografici nella sua narrativa?
C’è sempre un elemento autobiografico, come dei tasselli di vita nel momento in cui sono raccontati in un romanzo. Io li ho sparsi sempre nei miei libri, anche in quelli che possono sembrare più lontani da me come Il Birraio di Preston. Faccio un esempio: nel Birraio di Preston, all’inizio, il bambino che si alza per fare pipì è quello che scrive la storia contraffatta, ed è un signore con tanto di nome, cognome: un mio amico. Ci sono sempre: poi alcuni romanzi decisamente più autobiografici… ma non fino in fondo. Non sono io Michelino di La presa di Macallè ma l’atmosfera, l’ambiente, sono quelli miei.
Nella narrativa storica gli elementi dell’autobiografismo aiutano la ricerca della verità storica oppure l’indagine sulla storia porta all’autobiografismo, ai ricordi, alla memoria? Sono legati questi due concetti?
Questo, onestamente, non glielo so dire. Per ciò che riguarda me, l’autobiografismo è il fatto successivo all’invenzione di un romanzo storico. Ogni mio romanzo storico nasce sempre da un fatto storico nel quale io non c’ero, non sono stati concepiti neanche i miei nonni al momento. Poi, dentro quell’ambiente, quell’atmosfera, posso mettere dei tasselli di memoria che in qualche modo si adeguano.
Ma l’autobiografismo è crescente nei suoi romanzi…
Credo che sia un effetto di vecchiaia… non sto scherzando! Credo che sia, come la chiamava Sciascia, «la presbiopia della memoria»: evidentemente più si invecchia, più c’è una certa presbiopia, e credo che sia questo, cioè i miei ricordi si affollano…
e devono uscire fuori…
Sì capisce… la tentazione è quella di una sincera autobiografia che nessuno ancora aveva il coraggio di scrivere.
La differenza tra scrittore e narratore. Moravia diceva che bisogna distinguere gli scrittori dai narratori.
E come si considerava lui?
Lui era giudicato solo narratore, non scrittore, poi Dacia Maraini ribadisce: un narratore è sempre anche uno scrittore, mentre quest’ultimo, pur possedendo uno stile, una forma, magari raffinata, risulta privo della scrittura narrativa che è propria appunto del narratore. Quindi considerando il fatto che i suoi due romanzi prediletti sono quelli dove manca o viene sovvertita la struttura narrativa (Il birraio di Preston e La concessione del telefono), lei si crede scrittore e narratore o vorrebbe credersi uno o l’altro?
Io vorrei essere considerato un contastorie, come mi sono autodefinito, cantastorie no perché sono stonato, ma contastorie sì, ma non mi considero narratore o scrittore.
È una questione di sfumature tra raccontare, narrare, trasmettere, descrivere?
Nel narratore c’è anche un elemento di oralità implicito nella scrittura, che è nella mia scrittura. Invece in uno scrittore non è detto che ci sia questo elemento di oralità, che sia presente necessariamente.
In futuro ha in animo di scrivere romanzi complessi come Il birrario di Preston e La concessione del telefono?
Non lo so, perché ogni struttura di un mio romanzo storico nasce dal romanzo stesso: una volta che sono riuscito in qualche modo a rendere una storia lucida dentro me stesso, mi fermo e comincio a riflettere proprio come un architetto che sta facendo una villa, comincio a riflettere sui pieni, i vuoti, il respiro che deve avere questo romanzo. Pensi che ho una sorta di fissazione prima di mettermi a scrivere: la lunghezza dei capitoli.
Trovo che nei suoi romanzi i capitoli sono tutti uguali, della stessa lunghezza.
Questo è un senso di pianificazione, che mi è necessario prima di cominciare a scrivere un romanzo. Questa è la prima cosa, dopodiché comincio a pensare al tempo del romanzo, tempo narrativo, che può variare di romanzo in romanzo a seconda della necessità di quello che voglio raccontare. Quindi non posso, non sono in grado di dirle oggi quale sarà il prossimo.