
Al cimitero di Floridia, a sinistra appena entrati dall’ingresso principale, c’è la tomba a terra di un sacerdote, don Vincenzo Raimondo, sepolto con la sorella Agata, il cui epitaffio maschera una storia terribile che a Solarino, il paese a due chilometri dove don Vincenzo era parroco, nessuno vuole che si risappia. Il segreto – perché di questo si tratta – è così ben tutelato che basta farne cenno per beccarsi quantomeno una minaccia di querela. Ma chi ha dettato le parole che campeggiano sulla tomba voleva invece che si sapesse eccome cosa aveva vissuto don Vincenzo. In quell’epitaffio c’è praticamente tutto, tranne i particolari: “Apostolo infaticabile da parroco prima e da cappellano all’ospedale civile dopo. Bontà, dolcezza, conforto don Vincenzo Raimondo diede a quanti l’avvicinarono. Simile al crocifisso Gesù sopportò umiliazioni e dispiaceri col sorriso sulle labbra, sua propria virtù. Dopo lunga e penosa malattia, con lo sguardo al cielo santamente spirò”.
Quali umiliazioni e dispiaceri, simili addirittura a quelli patiti da Gesù in croce, dovette sopportare don Vincenzo che per essere stato trasferito dalla titolarità di una parrocchia (quella di San Paolo di Solarino, la principale, sede del patrono) alle anonime e innocue funzioni di cappellano, dovette evidentemente essere accusato di una grave colpa e venire punito dal vescovo? Appare chiaro che si trattò di un provvedimento ingiusto dal momento che dopo la morte gli è stato riconosciuto il torto subito tanto da esserne lasciata prova, scolpita sulla tomba, a testimonianza della sua vita. Ma di quale torto si trattò?
È una storia vecchia di molti anni, quando a Solarino c’era una sola parrocchia e l’altra della Madonna delle lacrime doveva ancora essere concepita. Don Vincenzo ne era il parroco. La parrocchia era ritrovo soprattutto delle donne di chiesa che orbitavano attorno alle funzioni e alle liturgie del parroco.
Dicerie di untrici montano e arrivano alle orecchie del vescovo che ne verifica il fondamento e dispone l’allontamento del parroco. Si tratta di dicerie umilianti, intollerabili in un tempo così intransigente e in un paese così pettegolo. Don Vincenzo viene trasferito all’ospedale civile di Siracusa come cappellano: dirà messa ai malati. È una punizione, senz’altro fonte di cocenti dispiaceri, che don Vincenzo accetta senza avere nemmeno la forza di difendersi e reagire, passando da accusato ad accusatore e additando la parrocchiana o le parrocchiane che per qualche ragione hanno voluto calunniarlo così pesantemente. Calunnie irripetibili che infatti don Raimondo nemmeno cita per controbattere davanti al vescovo. Accetta il verdetto e da quel momento si ammala e comincia a morire. Sarà una malattia “lunga e penosa”, il progredire della quale mina la coscienza di chi è stato artefice di tanta sofferenza.
Da questo punto in poi, nel silenzio di tutti i solarinesi – storici, sacerdoti, attuali donne di chiesa e persino abituali ciarloni di piazza – conviene affidarsi proprio alle voci. Anche queste però oggetto di smentite e reticenze. Solarino vanta un missionario, padre Antonio Barbagallo, quasi coetaneo di padre Raimondo, che si è distinto come missionario apostolico in Birmania dove è morto. Il Comune pensa di ricordarne l’opera con una lapide che viene affissa nel luogo più appropriato, la chiesa di San Paolo, Si trova a destra, all’inizio della navata.
Al momento della cerimonia di affissione avviene un fatto del tutto inaspettato: una donna – di cui Solarino tace il nome con assoluto ritegno, salvo qualche ammicco – cade in ginocchio, piange e si dispera, confessando una grave colpa, quella di aver calunniato anni prima padre Raimondo, che non c’è più. La costernazione è totale e c’è chi dice che padre Barbagallo ha “vendicato” padre Raimondo, perché se non fosse stata allestita la sua lapide, i rimorsi non avrebbero dilaniato l’anima della colpevole né si sarebbero tradotti, davanti a tutti, in una inequivocabile confessione.
La curia arcivescovile è la prima a battersi i pugni sul petto e a precipitarsi a rifare la verginità a padre Raimondo. L’articolo di Giovanni Sudano giunge tempo dopo a coronamento di questa azione di risarcimento, senza un solo cenno al fatto che l’ha determinata. La parrocchiana colpevole, anziché il biasimo, ottiene dal paese conforto e benevolenza. Ha peccato, si è redenta, quindi deve godere dell’indulgenza plenaria di Solarino. E così in effetti è stato.
La donna è morta da qualche tempo, nella consolazione dei sacramenti e con un funerale degno di un paese che ha imparato da San Paolo a farsi una ragione del male che si trova quando si cerchi il bene e come il male possa tradursi in bene quando si è in grazia del Signore. Per Solarino tutta, la calunniatrice confessa del suo parroco lo era certamente. Restano un misterioso epitaffio e una lapide… galeotta.