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Elogio della rinuncia all’auto e del muoversi a piedi o in pullman

di Rino Cammilleri
12/07/2019
Elogio della rinuncia all’auto e del muoversi a piedi o in pullman

Scrittore, originario di Cianciana (Agrigento), vive da molto tempo a Milano

Vi sarete accorti che l’automobile privata e individuale è ormai considerata un nemico giurato da un crescente numero di sedicenti “progressisti”. Perché mai? Il sospetto è che la risposta sia: proprio perché privata e individuale. Nei soliti Usa (da cui gli autodefinitisi “progressisti” hanno mutuato e mutuano ogni idea purché strampalata, dal Sessantotto alla deep ecology, dal femminismo militante al politically correct, dal buddhismo snob al salutismo fanatico; misteriosamente, però, essi diventano feroci antiamericani solo quando gli Usa fanno qualcosa di buono) è in atto una vera e propria campagna demonizzatrice (condotta dai soliti liberals, cui si affiancano anarchici e no-global) contro – per ora – i fuoristrada, accusati di a) inquinare, b) sprecare benzina, costringendo il Paese a fare la guerra agli arabi per il petrolio, c) fomentare, perciò, il terrorismo islamico. Et voilà: la colpa dell’11 settembre è del 4×4. Gli appassionati della trazione integrale si preparino, perché tutte le belle pensate dei “libertari” americani prima o poi finiscono anche sulla nostra tavola.
Comunque, l’idea della lotta continua al traffico cittadino è contagiosa. Prendiamo, per esempio, una della città più importanti d’Europa: Milano. Da gran tempo non è più una città industriale, ora è tutta un terziario più o meno avanzato. Il riscaldamento nelle case e i condizionatori d’estate hanno mutato il microclima facendo sparire la leggendaria nebbia milanese. Si aggiunga il passaggio dei più al metano e alle marmitte catalitiche. Mettiamoci la diminuzione demografica e, ma sì, anche le campagne terroristico-proibizioniste che hanno ridotto notevolmente il numero dei fumatori. Eppure, malgrado tutto ciò, per far calare lo smog non bastano domeniche a piedi, targhe alterne e zone vietate. Se due più due fa quattro, ciò vuol dire che esso dipende da altro, visto che supera continuamente i “livelli di attenzione” anche in strade letteralmente senza traffico. Epperò il dito è sempre puntato sulle auto, talché le casse comunali traboccano di proventi da multe. E da sosta a pagamento (salato, senza considerare che i motori tenuti a basso regime inquinano, semmai, di più: la ricerca di un altro parcheggio, dopo aver dovuto lasciare il primo per scadenza del tempo o per lavaggio strade, costringe a un prima-seconda-folle continuo). Donde tanto odio?
Ai tempi della vecchia Urss un  intellettuale dissidente, liberato dopo scambio di ostaggi (ricordate? c’erano anche queste vergogne, nel Paradiso dei Lavoratori), appena giunto in Occidente ebbe a manifestare il proprio gioioso stupore alla vista di due oggetti di cui gli occidentali abbondavano talmente da possederne più di un esemplare: il telefono e l’automobile. L’idea che uno potesse comunicare con chi voleva quando voleva e che potesse andare dove gli pareva quando gli pareva, per lui era la quintessenza della libertà. Infatti, concluse, è inutile parlare e straparlare di “libertà” se non si hanno i mezzi concreti per esercitarla. E’ il motivo per cui, nel Paese della Libertà (maiuscola) ma soprattutto delle libertà (minuscole), cioè gli Usa, le cosiddette rifle-lobbies dormono tra due guanciali perché è la gente a non voler rinunciare al diritto – costituzionalmente garantito – di possedere armi. Anche se il prezzo pagato in termini di morti ammazzati è alto (la massima libertà possibile, là, presuppone e accetta che ci sia chi ne abusa; e presuppone anche che gli abusatori la paghino carissima). In Inghilterra – che, come gli Usa, ha avuto il bene di non essere mai stata invasa da Napoleone – non hanno nemmeno la carta d’identità perché ritengono che il cittadino non abbia alcun dovere di dimostrare allo Stato la propria esistenza – né dire dove abita e con chi – quando e se perentoriamente richiesto. Democrazia di fatto, contrapposta a quella troppo spesso, ahimè, fatta di parole (non si fregiavano di “democratiche” le repubbliche sovietica e maoista? anzi, quell’aggettivo, posto nell’intestazione ufficiale, serviva a distinguere i totalitarismi rossi dalle democrazie vere, che non sentivano il bisogno di usarlo).
Ebbene, mi sembra che noi occidentali, con l’alibi dell’intasamento e dell’inquinamento, ci stiamo allegramente facendo segare il ramo su cui siamo seduti. Senza nulla togliere ai problemi, effettivi, di intasamento e inquinamento. Ma la strada imboccata per risolverli, questi problemi, non va nel senso della libertà bensì del divieto. Feroce, ossessivo e – cosa più grave – praticamente indiscusso. Mi si dirà: parli bene, tu, ma cosa proponi? Risponderò eludendo la domanda: io faccio di mestiere lo scrittore e, se non lo faccio bene, il mio mestiere, muoio giustamente di fame perché la gente non compra i miei libri. Sottolineo: giustamente, perché non me l’ha ordinato il medico di fare lo scrittore. Ora, gli amministratori si presentano spontaneamente alle elezioni sostenendo di saper risolvere i problemi. Poiché io non lo so fare, l’amministratore pubblico (riconoscendomi mancante del fondamentale talento del problem solver), a candidarmi non ci penso proprio. Dunque, a braccia incrociate mi aspetto le soluzioni da chi di dovere.
E’ una fissazione tutta giacobina quella di voler “educare” il popolo con le buone o le cattive. Fuor dai denti: il divieto totale di fumo, l’obbligo della raccolta differenziata dei rifiuti, dell’uso del mezzo pubblico e della bicicletta, non mi sembrano affatto cose liberali. Dettagliando: il tabacco dà dipendenza, sì, ma è l’unica cosa che abbia in comune con le droghe. Si avvertano i fumatori del danno probabile (cosa che già sanno) e si lascino loro i locali riservati, così che le piccole imprese (perno della nostra economia) come pub, bar e ristoranti non vengano penalizzate pesantemente. La raccolta differenziata: la faccia il Comune, che già percepisce le tasse apposite, e non si costringano i vecchietti a dannarsi per distinguere l’umido dal secco non riciclabile e via sproloquiando in ecological-burocratese. Ci sono Comuni che addirittura costringono i cittadini ad acquistare (di tasca propria) i sacchetti “biodegradabili” ricavati dal mais e poi a farsi parecchia strada, con le braccia cariche di sacchi e sacconi, per andare a cercare le “campane” diversificate e apposite. La bicicletta andava bene nella Cina della Rivoluzione Culturale e va bene per i giovani salutisti lesti di riflessi, non per un Paese  liberaldemocratico composto per un un buon terzo di anziani. Il mezzo pubblico consegna mani e piedi i meno abbienti ai sindacalisti dei trasporti, che a colpi di scioperi possono mettere in ginocchio un’intera città quando vogliono. E si potrebbe continuare con gli esempi.
Detto questo, andiamo a conclusione. Quando, con le buone ma soprattutto con le cattive, i cittadini getteranno la spugna e, stufi del salasso finanziario e nervoso costituito dalla colpa di possedere un’auto e di volerla usare, andranno finalmente a piedi (tranne i vecchietti e i malati, ovviamente), le città occidentali faranno un meraviglioso balzo indietro nel tempo, roba da stupire perfino H.G. Wells. Cavalli e draisine, come nel XIX secolo. O biciclette, come nel Vietnam di Ho-chi-min. Il futuro? Mongolfiere e macchine leonardesche (a pedali).
Per venire a un problema molto più acuto e tutto italiano, fare delle auto Fiat la prima produzione in serie al mondo di vetture elettriche o a idrogeno o magnetiche o solari o quel che volete (perché non a deiezioni cinofile, così da far contenti gli animalisti?) avrebbe salvato capra e cavoli, occupazione e salute e libertà, andando nella direzione del (vero) progresso anziché del mesozoico. Mi si ribatterà che è fantascienza. Risponderò che a me pareva solo politica industriale e occupazionale. E prevengo: non possiedo auto; l’ho venduta prima di trasferirmi nella metropoli. Mi sposto coi mezzi pubblici. Vittima di ogni agitazione di Cobas e rassegnato a ogni influenza stagionale (“evitare i luoghi affollati”, ripetono ogni anno i medici). Riflettendo ogni giorno sul fatto che l’odio metafisico per tutto ciò che non è “collettivo” e “pubblico” non è cattolico e neanche liberale (in un Paese come il nostro che si professa a stragrande maggioranza cattolico e, all’unanimità, liberale). Nemmeno il proibizionismo nei confronti dei vizi innocenti. Ma questo è un altro discorso, un discorso che ci porterebbe lontano: a quel “virtuoso” e “incorruttibile” che fu l’avvocato di Arras, padre di tutti i fanatici. Sì, lui, Robespierre.

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