Il 31 gennaio 1993, intorno alle 18, il prefetto di Ragusa Antonino Prestipino Giarritta era in Piazza del Popolo ad aspettare l’autobus diretto a Messina, la sua città. Lasciava la carica di rappresentante del governo su disposizione del ministro dell’interno Nicola Mancino. C’era freddo ed era già buio. Non essendo più prefetto, non volle servirsi dell’auto dello Stato con autista e preferì andarsene da solo con i mezzi pubblici nel disagio di una coincidenza a Catania per Messina. Non lo fece sapere a nessuno e si riseppe anni dopo perché l’autista riferì di averlo accompagnato solo alla stazione. In sostanza Prestipino Giarritta diede solo a se stesso una incredibile prova di sens per lo Stato e la cosa pubblica.
Alla stessa ora in municipio il Pds gli celebrava nell’aula consiliare gremita da simpatizzanti venuti anche dalla provincia un processo, presenti il ministro-ombra della Giustizia Massimo Brutti e il segretario regionale del Pds Angela Bottari, anch’ella di Messina, nonché la deputazione nazionale e regionale del partito al completo, da Scivoletto a Monello, da Battaglia a Chessari. Un’emittente televisiva vicina al Pds, Telenova, trasmetteva in diretta il convegno intitolato “Emergenza istituzionale in provincia di Ragusa”, titolo che nei giorni precedenti campeggiò in grandi manifesti murali a caratteri cubitali. L’emergenza era rappresentata proprio da Prestipino Giarritta, perché aveva sciolto per mafia due Consigli comunali, Scicli e Pozzallo, e insediato una commissione d’indagine a Vittoria, Comune in odore anch’esso di mafia, insidiando così l’immagine di una provincia operosa, onesta, immune all’insorgenza mafiosa e governata da partiti inappuntabili. La storia degli anni successivi avrebbe detto la verità. Il Pds per primo, ma anche il Ps e la Dc, si ribellarono e montarono un’accanita e violentissima campagna contro il prefetto chiedendo al ministro che venisse rimosso. L’ebbero vinta.
Quella sera Prestipino Giarritta, arrivato a Ragusa il 2 settembre 1991, salutò le sue due più vicine collaboratrici, Chiara Armenia e Maria Carmela Librizzi, poi divenuta prefetto di Ragusa, il capo di gabinetto Salvatore Campo, e si fece lasciare alla stazione dei pullman. Nello stesso momento il segretario provinciale del Pds Salvatore Carpentieri leggeva nell’aula consiliare del Comune, divenuta sede di un convegno di partito, pagine tratte da due “libri bianchi” che costituivano l’atto di accusa contro Prestipino, libri messi in vendita al costo di ventimila lire. La colpa imputata a Prestipino era di aver attaccato la democrazia e i lavoratori perché diretta contro Comuni amministrati dal Pds e dunque di storica tradizione democratica. Moltissimi anni dopo uno di questi Comuni, Scicli, sarebbe stato ancora una volta commissariato per mafia.
Prestipino era venuto con un obiettivo preciso: scacciare dalla pubblica amministrazione ogni tipo di infiltrazione mafiosa, senza badare a nessun partito né potentato. Non era mai successo in una provincia educata al più complice consociativismo, per cui la reazione fu rabbiosa. Insieme con il prefetto furono duramente contestati alcuni giornalisti, non più di due o tre, che diedero risalto alle iniziative prefettizie e che non sposarono la causa dell’attacco alle istituzioni democratiche da parte di una istituzione anch’essa democratica.
Prestipino non prese nessuna iniziativa personale, né avrebbe mai potuto. Il decreto di scioglimento fu opera del Viminale al quale il prefetto trasmise il suo rapporto. Ma fu proprio il ministro Mancino ad arrendersi alle pressioni incalzanti dei partiti e rimuovere Prestipino facendolo apparire come il solo artefice del rivolgimento su più fronti operato in provincia di Ragusa con una determinazione che sorprese tutti.
Richiamato al ministero e messo a disposizione, Prestipino andò presto volontariamente in pensione e morì quattro anni dopo. Sulla sua tomba campeggia un epitaffio che ricorda il “prefetto coraggioso e uomo libero”. Ma Prestipino Giarritta era stato anche un fine letterato. Di giorno non era raro vederlo in giro per vecchi palazzi e case rurali in cerca di manoscritti e libri antichi di cui gli fosse giunto sentore. La notte amava leggere in tutta solitudine nel grande salone della prefettura affrescato da Dulio Cambellotti. Ha anche pubblicato racconti e saggi, editore Pungitopo, ma il suo nome è legato soprattutto a un breve testo teatrale, uscito nel 1995 da Publisicilia, intitolato L’upupa dalla cresta rossa, che oggi è molto difficile trovare. Si tratta di un pamphlet nel quale viene ripercorsa en travesti la sua esperienza ragusana, echeggiata da refluenze sciasciane. Questo libro è la chiave per capire non solo l’autore, ma anche il contesto nel quale il prefetto si trovò ad operare entro una rete di poteri mascherati. Parlando di contesto non si può non implicare Sciascia e non partire da lui.
«La missione dello scrittore è di denunciare il potere» esortava Sciascia, che aggiungeva: «Gli intellettuali si impegnino sempre contro i principi, contro i poteri, contro le chiese, anche se sono le loro». L’appello apparirebbe un incoraggiamento alla delazione e una fomentazione del pentitismo senza la distinzione che Sciascia tiene ferma tra potere politico e autorità statale. Così, Il contesto si conclude con il Vicesegretario che dice: «La ragione di Stato c’è ancora, come ai tempi di Rechelieu. E in questo caso è coincisa, diciamo, con la ragione di Partito», ragione di Stato e ragione di Partito come grandezze separate, rappresentazione di uno scontro-incontro in cui quella politica guadagna il sopravvento su quella istituzionale. Sciascia vede nella collusione tra partito al governo e partito all’opposizione il discrimine della prevaricante ragione di partito e in un intellettuale, l’ispettore Rogas, la soccombente ragione di Stato. Non diversamente, in L’upupa dalla cresta rossa la ragione di Stato è impersonata dal Capo Ufficio e quella del Potere dal Capo Supremo, il primo nell’interpretazione del prefetto e il secondo del ministro dell’Interno. E come Sciascia, fustigatore del potere che si muta in prepotere, anche Prestipino, nel momento in cui parteggia per l’autorità costituita, scopre che vincente è quella ragione di Partito che si fa dominante e prevaricatrice.
Il fallimento del tavolo delle regole tra autorità e potere, provato da Sciascia e comprovato da Prestipino, rievoca il mito di Prometeo, dio che in nome di una ragione giusta si ribella al Capo Supremo e viene punito. La ribellione di Prometeo è la stessa del Capo Ufficio che protesta con il ministro e finisce esautorato. Ma mentre Prometeo viene alla fine liberato dalle catene, è il Capo Ufficio a doversi liberare dal «servaggio»: «Che me ne fotte! Conosco la pasta di cui siete fatti. Uomini? Quaquaraqua. Andate a farvi benedire!». Sono le ultime parole dopo le quali una radio diffonde le note della Messa da requiem di Verdi seguite da quelle dell’Inno del sole di Mascagni e quindi dalla musica di Yellow Submarine in un crescendo di tensione sul quale cala il sipario. La luce bianca e accecante che inonda il palcoscenico, quasi un labile tentativo di rigenerazione, è il solo segno di speranza che l’autore si sente di trasmettere, ma che subito revoca in dubbio per la cappa di angoscia di cui i fatti sono gravidi. Fatti che si riconducono a una telefonata (“telefonata di Stato”, qual è il sottotitolo della pièce) con il carattere della controversia, che come nella Recitazione della controversia liparitana di Sciascia sostituisce l’argomentare all’agire, la parola all’azione: ciò che spiega le digressioni cui condiscendono Capo Supremo e Capo Ufficio in un gioco sottilissimo di ammiccamenti e allusioni che è proprio dell’armamentario del potere. E allora, come nella Recitazione di Sciascia le parole servono a rappresentare il potere, la forza di ognuno dei contendenti, ognuno per sapendo, vicerè per primo, che le scelte sulla Sicilia dipenderanno da opportunità politiche e non dalla libertà di coscienza, così nell’Upupa di Prestipino la controversia che sottende la telefonata maschera uno scontro tra poteri e sembra precorrere l’inevitabile esito della sopraffazione.
Ma è uno scontro giocato tutto in un continuo rimando di messaggi cifrati e di domande inevase come quella che il Capo Ufficio rivolge sfrontatamente al Capo Supremo: «La politica allora come va avanti?», domanda che non riceve risposta perché indebita non meno che insolente, rivolta com’è a un ministro che politica non dovrebbe fare, ricoprendo cariche istituzionali. La telefonata è un dialogo, abbiamo detto una controversia, durante la quale le parti faticano a capirsi, imputando alla “batteria” la cattiva ricezione, e per la quale il fatto di appartenere a uno stesso centro di potere non significa compartecipare ad esso. E che non facciano parte dello stesso potere è il Capo Supremo ad ammetterlo riconoscendo al Capo Ufficio di non essere stato mai interessato al potere e dunque di essere legato al proprio, quello politico.
La telefonata di Stato è quella che il primo fa al secondo dopo aver ricevuto un suo rapporto sulla necessità di adottare provvedimenti di sospensione di «municipi dove la mafia incalza». Il ministro approva il rapporto e ordina che entro la stessa sera il prefetto esegua la sospensione «illico ed immediate», facendo seguire la disposizione da una perspicua minaccia: «Il suo collo non la sosterrà a lungo se non provvede in conformità». Segue la risposta del prefetto, che però parla da solo perché la linea telefonica della batteria è intanto caduta. E spiega che sarà necessario il consenso del potere intermedio, quello della Regione, per cui dovrà prima sentire il «campione messinese», con riferimento all’allora governatore. Ma la telefonata rimarrà come un gioco delle parti perché i giochi saranno fatti sulla testa del prefetto che per adottare i provvedimenti di sospensione richiesti, rendendoli esecutivi, sarà punito con il trasferimento. La ragione di Partito prevarrà su quella di Stato.
L’autore immagina che la telefonata avvenga in un clima irreale e claustrale, dove la luce penetra dalle persiane creando gli effetti di un’inferriata e dove la scena è preceduta dall’ululare che fa un vento siciliano o africano: lo stesso vento, presagio di morte, che Erode Antipa sente quando Salomé gli chiede la testa di Iokanaan. Le ultime parole del testo di Wilde il Capo Ufficio le legge per annunciare che «i giochi sono fatti»: «Si sono messi d’accordo. Avevano bisogno di una sola testa da far saltare». Il vento che sibila e annuncia la morte richiama il vento lugubre e lamentoso della upupa, uccello chiamato “immondo” dalla Bibbia, che secerne una sostanza sgradevole capace di allontanare i nemici.
Sebbene l’autore avverta che «nessuno può riconoscersi obbiettivamente in alcuno» dei personaggi, i fatti si riferiscono chiaramente alle vicende che hanno riguardato il prefetto, mentre non meno scoperta è l’identificazione delle persone: le due collaboratrici, la bionda e la bruna, il Capo Supremo («Non le mancano gli appoggi opportuni, anche mancini») e gli esponenti politici iblei che sono stati gli artefici della destituzione. Scrive Prestipino: «Qui, monelli che scivolano in barba a tutti e cantanti di stornelli». L’allusione è a Monello e Stornello. E ancora: «Qualcuno, autorevole, rappresentativo, e non soltanto per la caprigna e mefistofelica barbetta filosofica, nel sinedrio del popolo (senza il popolo), sadicamente, concettualmente, scivolando [facile pensare a Concetto Scivoletto] lubricamente sul… tenero, ha protestato e ha sostenuto che meritavo la crocifissione».
Prestipino, legato scrupolosamente al segreto d’ufficio anche dopo essere andato in pensione, affidò all’allusione letteraria il compito di dire la verità, tanto che viene da chiedersi se le cose siano andate proprio come sono riportate metaforicamente nel testo teatrale. Tuttavia, a distanza di ventisei anni, molti aspetti di quella stagione in fiamme non sono stati ancora portati alla luce. Quel che appare certo è che a Ragusa la politica sfidò l’autorità istituzionale e l’ebbe vinta. Gridò al successo ma non segnò che la più penosa delle sconfitte della democrazia.