La cosa che più colpisce, in questo romanzo-saga che ripercorre cinquant’anni di storia recente della Sicilia (Ammatula, Castelvecchi, pp. 287, euro 18,50), è l’asciuttezza dello stile. Gianni Bonina racconta i casi che lo intramano senza mai evidenziare un benché minimo cenno di partecipazione, rifuggendo per scelta evidente da qualsivoglia compiacimento più o meno sentimentale, come se gli uomini e le cose che affollano le pagine appartenessero al fluire naturale del tempo e fossero parte della natura stessa dei luoghi in cui le vicende si svolgono, chiamati quindi a ritrarne la cultura, la filosofia del proprio essere. La loro naturalità, che è come dire la loro condanna.
Il fatto è che in questa storia e con questi personaggi Bonina ha tentato di portare avanti il suo lunghissimo lavoro di analisi sulla Sicilia in generale e sulla mafia in particolare scegliendosi un punto di vista curiosamente “neutro”, da “cronista” qual è per formazione intellettuale, e dico curiosamente perché non solo non sposa le ragioni di nessuna delle due parti (e qui si intende che i due poli non potrebbero che essere il bene e il male), ma compie l’improbo sforzo di riconoscere le ragioni di entrambe. Perché l’articolarsi dei fatti rivela ad ogni piè spinto, nell’uno e nell’altro campo, zone d’ombra più o meno legate a questioni etiche, debolezze sentimentali, retroterra di scrupoli che non di rado frenano l’azione, o la incoraggiano, magari la stravolgono, dentro una presenza di sentimenti religiosi che vanno oltre le parole che li testimoniano e operano dove meno ti aspetteresti di trovarli.
Che è poi la novità coraggiosa di questo libro. Che racconta una mafia disumana e belluina ma anche capace di pensieri gentili e umani, costretta spesso dalle sue stesse leggi alla feroce disumanità anche perché operante dentro un mondo abietto e meschino che, quando non accetta senza battere ciglio le leggi truci della sopraffazione, mente a se stesso fingendo di non vedere quello che in realtà vede benissimo. Che si chiama ipocrisia – la vulgata la definisce omertà – ed è un’altra forma del vuoto di valori su cui galleggia il nostro tempo e fonte primaria di tutti i pessimismi, come di ogni irredimibilità. Invano ovattata dalle parole.
Ma veniamo al libro. Il titolo, Ammàtula, che significa “invano”, “inutilmente”, è ricavato da un avverbio siciliano proveniente a sua volta dal greco “màten”, che ha lo stesso significato; ed è già una lettura dell’opera, perché ne sottolinea il duro senso di sconfitta che lo pervade, nel segno della inutilità di tutti gli sforzi, che pure vengono fatti, per affrancarsi da un certo tipo di mondo. Come se ad esso si fosse condannati per una insondabile volontà del Fato che ti inchioda dove ora sei e ti costringe a vivere dentro leggi che devi giocoforza rispettare. Che è appunto il senso della irredimibilità di cui parlava Sciascia, e il senso anche di tanta frequentazione di Bonina con le tematiche della mafia sempre pervase da questo tremendo giudizio finale. Sottolineato anche da un elemento stilistico già presente in altri suoi scritti, che il lettore attento coglierà senza difficoltà, e cioè il fatto che il mafioso parla una lingua venata di sicilianismo anche sintattico, per esempio con la soppressione del congiuntivo nelle dipendenti. Come ad evidenziare una sua differenza dalla pur anormale normalità dell’essere. Ma è anche l’humus che consente all’autore di costruire una storia che non è soltanto storia di uomini e donne, matrimoni e carriere, famiglie che si formano e si disfanno: è anche groviglio di interessi e inganni tramati di purità ingenue e a volte temerarie, dentro una realtà immobile che costringe al ruolo che il destino (la geografia, la famiglia, il caso) ha assegnato a ciascuno dei protagonisti. Dove i colpevoli non sono spesso del tutto colpevoli e gli innocenti non sempre totalmente innocenti. E questo spiega perché i personaggi finiscono con l’avere, loro malgrado, dimensioni tragiche, del tragico che è l’essenza delle tragedie greche, per esempio. E un saggio lo abbiamo nelle prime pagine del libro quando ci troviamo in presenza di un mafioso condannato al 41 bis che riceve la visita di un ex deputato un tempo suo avvocato difensore, maschere di un passato che li schiaccia entrambi, e parlano di un libro che qualcuno sta scrivendo sulla loro vita mentre tra di loro si staglia la figura di una donna amata da entrambi, Anna Sciarratta, moglie dell’avvocato ma oggetto di un amore mai venuto meno da parte del mafioso.
Sono loro i due poli dell’intera vicenda, il feroce mafioso Gaspare Scaturro, primo fidanzato della moglie dell’avvocato dalla quale ha avuto un figlio cresciuto poi nella famiglia dell’ignaro padre putativo, e l’avvocato Carmine Andaloro, diventato a sua volta punto di riferimento del mondo opaco degli inquisiti per mafia da lui assistiti, in nome del diritto alla difesa, con rigoroso scrupolo professionale. Ed ecco la sorpresa: l’amore del mafioso, di efferata ferocia, è puro e resiste ad ogni tentazione, non trascende mai in offesa dell’onore della donna, tramutandosi anzi in rispettosa protezione della famiglia in cui vive il figlio. Ma rispettosa a suo modo: perché l’avvocato, di formazione cattolica quindi a suo modo spinto verso il bene, e che forse avrebbe consumato la vita come anonimo sbriga-faccende, viene istradato e sostenuto nella carriera di avvocato di clienti mafiosi, poi di politico democristiano, quindi di alimentatore colluso di quel mondo che gli alimenta la carriera e gli costruisce il benessere. A ciò spinto dalla stessa moglie. In una tragica, appunto, eterogenesi dei fini che finisce fatalmente per trascinare nel baratro lui e tutta la sua famiglia, in un tragico intrecciarsi di destini.
Ne viene fuori l’articolato espandersi delle due famiglie e l’intrecciarsi, tra figli nipoti nuore sorelle mogli e cognati, di un groviglio di fatti e interessi che non avrebbe senso raccontare succintamente, che danno tuttavia allo scrittore la possibilità di rivisitare le varie stagioni di questi ultimi cinquant’anni siciliani, dove le due famiglie, restate famiglie coi legami di sangue che le famiglie hanno in Sicilia, sono di fatto diventate parte non sempre inconsapevole, spesso contrastata fino al sacrificio della vita, di quella che per eccellenza è la “famiglia” nel senso malavitoso del termine. Ma dove, soprattutto, è passato il tornado delle stragi di mafia, della guerra sanguinosissima tra mafia palermitana e stidda gelese, della mattanza continua che ha prostrato la Sicilia esaurendone risorse e speranze.
Tutto questo racconta Bonina, nella misura di un vero e proprio romanzo storico dell’attualità, attingendo alla sua fervida fantasia ma soprattutto alimentandosi nella casistica che il mestiere di cronista, e di narratore di fatti di mafia, gli fornisce in abbondanza. Talché noi troviamo, nel rincorrersi dei grandi delitti (da Della Chiesa a Capaci a via D’Amelio…) il mafioso calciatore che non esita a usare il linguaggio del calciatore mentre progetta una strage, ma anche la comparsa di donne che assumono ruoli direttivi dentro la cupola, e riviviamo la dinamica dei grandi latitanti e dei finti pentimenti a lato delle lotte feroci che si combattono per il controllo dei lucrosissimi studi di avvocati penalisti. Intanto i personaggi principali vivono le loro crisi, chi tra una strage e l’altra e chi tra una preghiera e l’altra, mentre il tutto si combina in un quadro di allucinata perdizione, che è poi il quadro della Sicilia dei nostri giorni. Evocata anche dai nomi di chi l’ha governata, i Cuffaro, i Lombardo, o di chi l’ha infangata, Riina, Messina Denaro, qua e là evocati come a marcare il tempo in cui si evidenziano le scene del dramma. Ma anche a sottolineare la tragica insignificanza del loro operare. Tutto questo tra la Catania, dove si svolgono, tra l’infuriare delle lotte studentesche, le prime scene del dramma, l’agrigentino dei luoghi vocati alla mafia come Ribera e Raffadali, e naturalmente Palermo.
Resta da dire del ruolo che Bonina assegna, in questa disperata rappresentazione della Sicilia, alla religione. Che non è solo quella dei santini baciati dai mafiosi e dell’untuoso linguaggio con cui i cattolici praticanti, contemporaneamente frequentatori dell’universo mafioso, mettono a posto la loro coscienza. E non è neanche l’inconsapevole retroterra culturale per cui siamo tutti “cristiani”, nella locuzione che definisce il singolo individuo. È invece anche qualcosa come un retroterra di speranza che l’autore assegna, per ultima spiaggia, alla disastrata umanità che racconta. Qualcosa che a dispetto dell’ipocrisia che si accontenta di parole, opera nel profondo, si intreccia al male che sembra pervadere ogni cosa mostrandone l’assurdità, sconfinando a volte quasi nel miracolo. Come è nella vicenda di suor Giulia, entrata per caso come ramo innocente nella famiglia Andaloro, sfuggita a una strage di mafia e assurta al ruolo di turbatrice di coscienze che mai niente avrebbe potuto turbare. Che ricorda, in contrapposizione a tante altre donne perfettamente inserite nelle dinamiche di questa storia, una delle quali di nome Lucia, la Lucia del Manzoni, la palingenetica figura della Provvidenza che scardina il Male edificando il Bene. Qui, in questo mondo senza luce, Giulia avrà anche lei il suo Innominato, spinto dalle sue preghiere in un percorso lontano dal mondo di prima. Sarà però solo il “suo” percorso, e Bonina non si fa certo illusioni al riguardo. Anche se evoca, concludendo il libro, l’apparire di un arcobaleno.