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La vedova era bellissima e pure a lutto. Prese il treno e mi finì a letto

di Salvatore Fiume
23/07/2019
La vedova era bellissima e pure a lutto. Prese il treno e mi finì a letto

Nella seconda metà degli anni Novanta Salvatore Fiume concepì l’idea di un libro di racconti dedicati al treno e da intitolarsi “Racconti ferroviari”. Ne scrisse undici che non videro poi la luce in volume. Questo che pubblichiamo è uno di quelli.

Io ho viaggiato a lungo su treni lunghissimi non solo in Italia ma anche all’estero. Conosco le notti piovane dentro e fuori dai treni e i sonni con la testa contro ai legni e ai finestrini vibratili, per non dire mobili e mai fermi, che scivolano negli alloggiamenti e lasciano entrare l’aria fredda che c’era fuori insieme con le scaglie di carbone che si infilavano negli occhi sbarrati dalla sorpresa. E conosco le cabine dei vagoni letto, calde e comode, fornite di tutto, comprese le tendine trasparenti e non per ottenere penombre e mezze luci come a casa propria. Ora viaggio in aereo, al quale non si può negare la componente poetica che ha, volando altissimo e velocissimo, tra cielo e terra. Ma devo confessare che, nonostante il fatto che io non abbia più voglia di viaggiare in treno, quel mezzo della mia giovinezza è rimasto nella mia memoria come un amore che fu parte della mia vita.
Al treno devo molti dei miei amori finiti e cominciati in viaggio, a treno fermo e in movimento. So che il lettore ferroviario inarcherà le sopracciglia, leggendo la frase “molti dei miei amori”, ma posso assicurare che se non furono molti gli amori nella mia vita non furono neanche pochi.
Una volta, nel 1938, mi recavo a Roma, in divida da ufficiale, congedato da qualche giorno, e ci andavo per farmi dare dal Ministero dell’educazione nazionale un posto di professore, altrimenti mi sarebbe toccato tornare a fare il mendicante a Milano, da dove provenivo. Io venivo da una vita avventurosa affrontata a vent’anni in totale povertà per le vie di Milano dove per vivere un giorno dopo l’altro, in attesa di guadagnare qualche lira facendo il pittore (niente di meno, allora!), chiedevo l’elemosina. Ero male in arnese e in quella condizione ero andato felice al corso allievi ufficiali, dove avevo trovato non solo da mangiare ma anche da vestirmi. Poi ero passato al “servizio di prima nomina”, così si chiamava il servizio di ufficiale non di carriera, ed avevo indossato la divisa che mi aveva obbligato a viaggiare in seconda classe sui treni e a frequentare ambienti all’alto livello che si addiceva agli ufficiali dell’esercito che assumevano la qualifica di “nobiluomini”. Passato dalla qualifica di mendicante a quella di nobiluomo, dovevo sulla carta passare dalla povertà alla condizione opposta. Invece, congedato da ufficiale, ero tornato povero come sempre e con la prospettiva davanti a me che già conoscevo e cioè quella delle vie e delle poche gallerie d’arte di Milano dove trovare da mangiare e da dormire facendo il pittore.
Il ritorno a quel genere di vita, benché avessi un coraggio da leone, mi allarmava non poco. Unica via, mentre ero ancora in divisa da ufficiale, mi sembrò quella di andare a chiedere a Roma un posto di professore di disegno del quale possedevo il titolo. La mia idea fissa allora, come è sempre stata, era di fermarmi e affermarmi nell’Italia del Nord e non del Sud. E poiché ero andato via dalla Sicilia affrontando la mia avventura di pittore con l’intento di riuscire a farlo a Milano, non volevo tornarci sconfitto. Non volevo neppure scendere dal Nord al Sud perché sicuro di perdere degli anni preziosi che mi sarebbero occorsi per la mia affermazione nei grandi centri del Nord.
Arrivato a Bologna con quel treno che mi portava a Roma ebbi un lampo nella mente e cioè la terribile paura che avrei ottenuto un posto in una scuola del meridione o, peggio ancora in Sicilia, senza possibilità di cambiarla o di rifiutarla. Appena udii i freni stridere contro le ruote del treno, discesi di colpo e andai a sedermi al bar per pensare cosa fare ora che avevo interrotto quel viaggio. Per prima cosa pensai di ritornare a Milano con un treno di ritorno. Ce n’era uno dopo due ore e mezzo ed un altro dopo tre ore e mezzo. Tra una passeggiata nella stazione ed una seduta al caffè, c’incontrammo nell’attesa comune di quel treno io ed una vedova in gramaglie e ci ci sedemmo allo stesso automaticamente, per tenerci compagnia.
Non si spaventi il lettore se dico che io allora ero bellissimo ed elegantissimo nella divisa da ufficiale. A quel tempo qualsiasi signora non avrebbe disdegnato la compagnia di un tipo come me che, per altro, nel mio caso, era di persona educata e di persona per bene. La signora in gramaglie, troppo sola di notte in quella stazione quasi deserta, accolse con sollievo il mio invito a sedere con me ed a prendere un caffè, tanto per ammazzare il tempo dell’attesa. Per bere nella tazzina dovette alzare il velo nero che le copriva il viso e, benché si coprisse con la mano, potei notare che era molto bella. Non era alta di statura, forse era una meridionale che, venendo dal suo paese doveva cambiare treno a Bologna per recarsi a Milano. Faceva dunque la mia stessa strada, visto che avevo deciso di fare “dietrofront”. Io non volli chiedere chiedere perché fosse in gramaglie, per non rinnovarle il cordoglio per la perdita di un congiunto che poteva essere il marito, e per non distrarla dall’incontro che faceva per me.
Il treno che aspettavamo arrivò, ma così carico, zeppo di gente, che si rivelò difficile da prendere. A quel punto ci venne incontro il capostazione che, immaginandoci parenti di alta condizione sociale, ci disse, mostrandosi affabile, che dopo un’altra ora ne sarebbe passato un altro non pieno come quello e ci consigliò di aspettare. “Dovevate fare il viaggio in piedi e pigiati come sardine fino a Milano, nel prossimo treno sono certo che potrete trovare dei posti a sedere”.
“Cosa dice lei?” chiesi alla signora che mi rispose con un cenno di sì con la testa. “Sì, sì, grazie” dissi al capostazione, il quale dicendomi “Prego, è il mio dovere” se ne tornò nel suo ufficio. La signora ed io, seguendo la stessa sorte, andammo ad attendere l’altro treno seduti al bar, io fumando e lei senza dire una parola. Se prima c’erano quattro o cinque in attesa del treno per Milano, adesso c’eravamo solo noi due, perché gli altri se ne erano andati con il treno che era passato pieno. Dopo quella seconda attesa, arrivò finalmente il secondo treno completamente vuoto o quasi. La signora ed io salimmo ed entrammo insieme in uno scompartimento di seconda classe dove c’erano in un angolo un marito ed una moglie addossati l’uno all’altra, in pieno sonno. Lo scompartimento aveva le luci spente ed era illuminato solo da una lampadina verde a luce bassa che ci faceva appena intravedere. La signora ed io per un quarto d’ora, ancora svegli, guardammo quei due che, muovendosi appena nel sonno, si stringevano l’uno all’altra. Credo che a noi due fosse venuto il desiderio di fare altrettanto perché guardandoci negli occhi ci demmo un bacio con in mezzo il velo che lei tolse quasi con rabbia, ripetendolo senza il velo, lunghissimamente.
Appena tolte le labbra dalle sue, andai a vedere se vi fossero scompartimenti vuoti e ne trovai uno che nella stessa vettura era di prima classe. Tornai a prenderla per mano e ci andammo a nascondere lì dentro. Puntai la sciabola alla maniglia della portiera in basso contro lo stipite e la serrai come una cassaforte. Chiusa quella porta, chiudo anche qui il racconto il cui seguito lascio immaginare al lettore, molleggiato dalle morbide scosse del treno in corsa.

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