
Con Francesco Lojacono e Michele Catti, il palermitano Antonino Leto loro conterraneo completa la speciale terna dei paesaggisti siciliani dell’Ottocento, tutt’e tre vissuti a cavallo dei due secoli e giramondo, che oggi riferiamo a una stagione di interesse artistico nazionale. Nell’attesa di studi che ne valutino l’omologazione e soprattutto di una mostra che li veda insieme, fino al 10 febbraio del solo Leto è esposta a Palermo una personale alla Galleria d’arte moderna intitolata “Tra l’epopea dei Florio e la luce di Capri”, quasi a indicarne non tanto un periodo circoscritto dell’attività artistica quanto una polarità che si connota per la continuità di vedutista del maestro.
L’Ottocento pittorico siciliano si distinse dal gusto impressionista del plein air da un lato perché guardò ai macchiaioli, ai quali Leto si rifece sempre più adottando la resa del colore a macchie, ma senza tuttavia rinunciare alla precisione del naturalista, e da un altro perché mutuò una sensibilità positivistica che ebbe a precisarsi, come nella letteratura che guardava intanto al verismo verghiano, in una forma di regionalismo la quale proprio in Sicilia si nutrì della spinta demopsicologica, quella spinta che mostrava la “natura umana”, nel misto di tradizioni e costumi, fare dell’uomo un elemento compenetrato nel suo paesaggio. E così al pari dei veristi che, a cominciare da Verga, amarono la fotografia come strumento di fissazione del vero, anche i paesaggisti dell’esempio di Leto e ancor più di Lojacono amarono dipingere dal vero servendosi del dagherrotipo dal quale attingere.

La mobilità dei dipinti di Leto – mai vedute inanimate, dove siano assenti figure umane, il mare sempre mosso, il cielo striato di nuvole, la luce accecante che sembra seguire il movimento del sole – risponde, quanto più è dinamica, a una entelechia, all’attimo cioè dello scatto fotografico. Si veda La sciavica, dove i tre pescatori in precario equilibrio appaiono inclinati perché colti nel momento in cui tirano le funi a riva. O La mattanza di Favignana, grande composizione nella quale non c’è una sola figura che stia ferma in uno spumeggiare di onde spia della convulsa agonia dei tonni. Maggiori prove di una mobilità che nasce da una fissità ci vengono da I funari di Torre del Greco, capolavoro che entusiasmò D’Annunzio, complesso di figure in frenetica attività, riprese negli atteggiamenti più coribantici, tra le quali una sola, quasi a riposo, ha lo sguardo rivolto all’obiettivo nell’atteggiamento di chi si metta in posa. Un’eccezione, perché non c’è riposo nei dipinti di Leto, educato da giovane alla “scuola di Resina” (il nome dell’attuale Ercolano) che correggeva il canone impressionistico della contemplazione, della promenade e della quiete nel vortice di azione che orbitava attorno al fulcro del lavoro e della fatica. E nel lavoro Leto ha visto soprattutto impegnati i pescatori. Di qui il fatto che, come per Lojacono, anche Leto ha guardato al mare come scenario, come posto di lavoro, non il mare di Palermo ma di Napoli e poi di Capri, passando da Favignana e Marsala, e vivendo però il momento in cui le due città voltavano le spalle al mare avviando un concomitante risanamento che spingeva la pesca nelle periferie dove l’artista è andato a osservarla.

In mostra a Palermo sono quasi cento opere diacroniche divise nelle sezioni ognuna delle quali comprende un’età dell’artista e la sua relativa produzione. Se si esclude l’evoluzione dello stile che si fa via via “a macchie” e progressivamente luminoso, l’interesse di Leto è sempre centrato sulla natura umana, sulla fatica dell’uomo e la sua vita appartata e semplice entro un fondo nel quale il paesaggio se non è rivierasco è rurale, comunque romito anch’esso e certamente bucolico oltre che georgico. Siano un tacchino, degli asini e un bambino sdraiato o una pastorella i soggetti di pittura, non c’è quadro di Leto che non cerchi l’assimilazione tra uomo e natura nella cifra di un’identità che è anche anagrafica e coeva ma soprattutto fusione e mimesi.
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