Quasimodo non ha avuto una patria che non fosse la costellazione della Sicilia, l’isola topos della sua inventiva, la siepe leopardiana quale «confine del mondo» («La mia siepe è la Sicilia, una siepe che chiude antichissime civiltà»), «limite dove lo sguardo arriva più distintamente». I luoghi quasimodiani sono coniugati sempre al plurale sostituendo le città con le valli e i fiumi, le necropoli e le latomie, le zolfare e i papiri.
Quasimodo è innanzitutto siciliano, di quella Sicilia greca il cui secolare retaggio si è trasfuso nell’anima del poeta fino a identificarlo con essa. Laddove manca la Sicilia, in Quasimodo rivive il lirismo epico di forte impronta ellenica che rimanda ai miti greci, ricongiungendosi per questa via alla Sicilia in un continuo rinvio delle ragioni del cuore a quelle dell’educazione classica. E Dalla Sicilia e Dalla Grecia sono le due sillogi dove il sentimento di appartenenza a una storia madre, come a una geografia comune, è sentitissimo al punto da assumere il mito di Alfeo che insegue Aretusa dall’Ellade a Siracusa in guisa di itinerario da percorrere, «seguendo sottomare il fiume» per «annodare la corda spezzata dell’arrivo».
Quasimodo, nome pronunciato in greco con la retrocessione dell’accento sulla parola originariamente piana, di discendenze pur greche essendo la nonna materna nativa di Patrasso, è inimmaginabile senza la Sicilia o senza la Grecia, testimone ed erede di un mondo classico indivisibile al quale egli deve non solo il suo nome di trovatello (derivato dall’Introibus della «Domenica in albis»: «Quasi modo geniti infantes…») ma anche la sua ispirazione poetica che coincide con la stessa sua vita, tutta votata com’è alla poesia. Non a caso in una lettera d’amore arriverà ad affermare: «Il mio impegno dinanzi all’arte è altissimo e non posso concedere nulla», a giustificazione del distacco dagli affetti mantenuto come un voto di fedeltà.
La vita di Quasimodo è tutta nella sua opera, essendo in essa rifluiti gli esiti della sua lunga introspezione spinta al punto da mettersi, come dice Carlo Bo, «nudo», corrispondendo il poeta, «senza camuffamenti o alterazioni, a quello che è l’uomo». E in questa instancabile opera di scavo interno, altrimenti configurabile come un lungo viaggio nell’anima, la Sicilia è stata il faro che ha guidato la coscienza del poeta verso «la terra impareggiabile» nel viaggio di ritorno al paese della pietà, ubbidendo al più greco dei sentimenti, quello del nostos. Anche il percorso letterario, coperto di pari passo con quello reale, è stato un continuo ritorno alla Sicilia.
Dopo Acque e terre, Oboe sommerso e Erato e Apòllion, raccolte dove martellante appare il tema della Sicilia come luogo dell’infanzia perduta, della memoria e del rimpianto, la traduzione dei lirici greci, a seguito del suo trasferimento al Nord, altro non sottende che un viaggio di ritorno all’antica patria. Così anche più tardi, dopo la presa di coscienza successiva alla nuova consapevolezza «della ricostruzione dell’uomo frodato dalla guerra» per cui il poeta non può più «scrivere idilli o oroscopi lirici», le poesie di La terra impareggiabile e più ancora le ultime di Dare e avere riportano Quasimodo sulla strada del ritorno ai temi a lui più cari e congeniali dell’«isola» rimemorabile, delle confessioni confidenziali, degli affetti personali, degli stati contemplativi. Fino ad ammettere che «la Sicilia è un amore che non può dire alla memoria di fuggire per sempre da quei luoghi», non senza avere prima precisato che «la parola isola e la Sicilia si identificano nell’estremo tentativo di accordi col mondo esterno».
La Sicilia quindi come «dolore attivo», che sovviene nelle analoghe condizioni di quando «nasce un dialogo interiore con una persona amata lontana o passata all’altra riva degli affetti», è l’archetipo e l’ectipo della poetica quasimodiana, modello e copia. E le traduzioni dei greci e dei latini non sono da comprendere come divertìssement o esercizi di stile, ma rientrano nella parabola letteraria di una vicenda umana e umanistica coerentemente mutuata sul registro della stretta corrispondenza tra azione della poesia e idea della vita. Sono opere a tutti gli effetti quasimodiane, come egli stesso rileva: «Traducendo i greci o i latini non potevo dare loro che la mia sintassi, il mio linguaggio, la mia chiarezza. Imitando la loro sintassi avrei dato la mia oscurità». E la sintassi, quanto si vuole analogica ed ellittica di Quasimodo, è quella esemplata sulla koiné siciliana: «Le immagini si formano sempre nel proprio dialetto e l’interlocutore immaginario abita le mie valli, cammina lungo i miei fiumi».
Ecco allora stabilito il ponte tra la Grecia e la Sicilia, tra classico e neoclassico, pure sul quale passano anche «i nuovi contenuti» della poesia «sociale» del secondo e intermedio Quasimodo, quello della conversione neorealistica, del «desiderio di libertà» e dell’anelito a rompere la solitudine, che schiude quella terra nuova dove «il poeta modifica il mondo con la sua libertà e verità» ed è chiamato a «rifare l’uomo che aspetta il perdono evangelico tenendo in tasca le mani sporche di sangue».
Echeggiando il Giusti secondo il quale «fare un libro è meno che niente se il libro fatto non rifà la gente» e rispondendo quindi a un ideale di utilità che tanta presa aveva avuto nell’Italia risorgimentale, Quasimodo si sente chiamato al credo dell’impegno civile ricusando «il tempo delle speculazioni» e votandosi al compito di «rifare l’uomo». Così dopo il ’45 abbandona il sentimento per seguire la coscienza, lascia il monologo per scegliere il dialogo. Ma si tratta di una conversione che non ha il senso della ritrattazione, perché come «il passaggio tra i greci e i latini è stato una conferma della possibile verità nel rappresentare il mondo», alla stessa maniera «il problema capitale» di rifare l’uomo viene visto, in plaquettes quali Giorno dopo giorno, La vita non è sogno, II falso e vero verde, Quando caddero gli alberi e le mura, sotto la luce neoclassica più personale e intimistica, quasi confessionale: quella del lamento e dell’epitaffio, nella cui sfera il dato fortemente realistico ed engagée coopera con quello memorialistico alla formazione di un modello di poetica che è forse il connotato perspicuo di un poeta che si diceva innanzitutto «operaio di sogni».
Ma quello di «rappresentare il mondo» per poi modificarlo resta il motivo posto alla base dell’iniziativa poetica di Quasimodo, che a tal fine si serve del mezzo della verità, quella verità vista dal cognato Elio Vittorini come l’essenza della poesia e sui cui «contenuti si misura la statura di uno scrittore rivoluzionario». Ma, oltre che nei contenuti, rivoluzionario Quasimodo lo è anche nell’innovazione che apporta nella forma, innestando sul tronco dell’insorgenza neorealistica la vena intimistica che gli viene dalla «poetica della parola», dal simbolismo e da certe florescenze parnassiane e decadenti: un’operazione la sua che, se ha fatto parlare qualcuno di «cataloghetto delle scontentezze gratuite», rappresenta lo sforzo più significativo di superamento dei dettami e dei limiti ermetici con la riconversione della stessa lezione ermetica nei modi di una disciplina conforme alle nuove istanze sociali e politiche.
Ferma però rimane la tensione siciliana. Non diverso da Vittorini in tema di approccio alla Sicilia, essendo entrambi istruiti secondo i moduli elegiaci e lirici stabiliti dallo statuto del realismo mitico, Quasimodo ebbe un rapporto di specialità con Messina, la città che gli sollecita continuamente la memoria e gli fa dire: «Riconosco il fanciullo che sul Bosforo di Sicilia gettava la sua solitudine di isolano isolato. Qui vivo forse la mia ultima vita». A Messina Quasimodo tornava spesso per ritrovare le sue radici. Andava all’Ospe, la libreria di Nazareno Saitta, e firmava dediche sui suoi libri. La cugina Bruna Sturiale lo ricordava elegantissimo «con un favoloso cappotto di cammello», sempre in compagnia di una «segretaria». D’estate andava a Roccalumera, distendendosi nella rena pietrosa della prima fanciullezza a scrivere poesie, alla vista della casa del padre, il cavaliere Gaetano, che andava a trovare per dirgli, come nella poesia Al padre, «Baciamu li mani». A Raccalumera (dove i Quasimodo sono dagli anziani conosciuti ancora come Quasimòdo) una lapide nella casa «che lo vide ragazzo» ricorda l’abbraccio al padre «nell’aquila dei suoi novant’anni», mentre un bassorilievo in pietra arenaria e un marmo con incisa una sua poesia per il fratello morto ai piedi della Torre saracena testimoniano lo stato anagrafico del poeta battezzato nella parrocchia di Allume e arrivato bambino a Roccalumera, il paese dei nonni.
Ma è proprio Messina la sua città di formazione, dove fino ai 18 anni frequenta l’altro Totò, Pugliatti (cui chiederà di essere segnalato al Nobel) e poi La Pira, Nicastro, Vann’Antò, Natoli, animando con loro la stagione più fervida e intensa della Messina del Novecento. Divenuto Nobel, Quasimodo aderirà alla goliardica Accademia della Scocca, assumendo il nome di «Nobel-homo» e dall’università di Messina riceverà la laurea honoris causa. A Messina è vissuta fino alla morte, in un ospizio di suore, la sorella Rosa, l’ultima a portare il nome di Quasimodo. Ultranovantenne aveva praticamente perso la memoria e rincorreva lemuri della sua movimentata vita trascorsa tra due giganti come il fratello Salvatore e il marito Elio Vittorini. Più movimentata certamente la vita di Salvatore. Nella Milano che divenne la sua città d’adozione, e dove è sepolto tra i grandi del famedio, fu un personaggio da cronaca rosa oltre che da terza pagina. Piccoletto, i capelli tinti, con un Martini e la sigaretta nelle mani, la sua voce chiara che amava incidere sui 45 giri della Nuova Accademia, fu un prodigioso tombeur des femmes. Emanava un fascino prorompente circuendo le donne di parole e di attenzioni. La battuta pronta e spiritosa, diceva sempre quello che pensava. Una sera del ‘61 al Bagutta, a un ricevimento promosso dalla Mondadori in omaggio a Edward Forster in visita in Italia, quando lo scrittore londinese gli chiese di indicargli chi fossero fra i presenti i decani degli scrittori italiani, egli disse forte e caustico: «Gli scrittori italiani sono tutti de cani» gettando la sala nella costernazione.
Quasimodo non amava Montale, Sanguineti e la neoavanguardia del Gruppo ‘63, ma parlava volentieri di Gatto, Saba e Ungaretti. «Disdegnoso, polemico, irritabile – lo ricordava Bo – ma dotato di una carica di pietà umana che lo aiutava a ricomporsi, a liberarsi di qualsiasi risentimento». Fu un siciliano autentico nella vita come nell’arte, due dimensioni che in lui non hanno mai trovato differenza. E al pari di tutti i siciliani era, ripetendo Vittorini, «assuefatto a fuggire» («Non c’è tempo nemmeno per la madre / quando chiama la strada / e ripartivo /, chiuso nella notte / come uno che tema all’alba di restare»), ma portava sempre con sé il rimpianto doloroso della sua terra: «Ma l’uomo grida ovunque la sorte d’una patria. / Più nessuno mi porterà nel Sud».