A Troina, appena inserita nell’album siciliano come ventesimo “borgo più bello d’Italia”, non si va per vedere il paese ma per ricordarlo. In ogni siciliano alberga un po’ del suo spirito. La storia vale infatti più della geografia e si offre nel simbolo della Rocca che domina la parte vecchia in figura di una balena o uno squalo che voglia divorarla, come nei millenni hanno fatto, fino ai nazisti, dominazioni di ogni cielo. Qui la storia è un buco nero che inghiotte ogni certezza ed è grande quanto il tempo vetustissimo e venustissimo che narra un paese tra luci luminosissime e impenetrabili oscurità. Qui la storia è come il bastone di un vecchio centenario guidato di pietra in pietra in una condivisione di antico retaggio e vaghe memorie disperse e cangianti.
Come spiegare altrimenti che lo stemma del Comune raffigura, davanti alle mura triturrite, cespite di un reale blasone, non la balena della Rocca ma un cane passante che cambia razza a secondo dell’effigie, ora un cirneco dell’Etna e ora un lupo dei Nebrodi? E come interpretare il fatto che nel Cinquecento e poi per secoli il simbolo di Troina fu però il leone, suggello di maestà, dopo il ritrovamento sulle rive del Simeto di un sigillo di bronzo «dentro al quale – scriveva il Fazello – era intagliata una Rocca con tre torri e un leone alla porta» con le parole d’intorno “Antica città di Troina”? Dal leone, spia di grandigia, al cane, elemento familiare: il segno che a Troina nulla è definitivo e tutto è indefinito. Basta guardare l’ospedale per scorgervi i resti del grande castello che, in mano agli infedeli, il conte Ruggero dovette espugnare con l’inganno facendovi entrare non un “cavallo di Troina” ma un mugnaio carico di farina con dietro le sue truppe.
Un inganno intriso nella suggestione è anche il complesso di grotte e antri del circondario dove i primi abitatori cavavano pietre con cui fabbricavano mura poggiandole una sull’altra: pietre troppo grandi per uomini normali, sicché la storia soccorsa dalla leggenda ha stabilito che si trattasse di Titani, tali da fare entrare così i primordi di Troina direttamente nel mito, convocando di conseguenza Lotofagi, Lestrigoni e Giganti.
Perché no, visto che mura megalitiche sono ancora oggi visibili fuori paese, in chiesa madre è conservata una costola fuori misura e testimonianze con parvenza di certezza parlano del rinvenimento di un enorme teschio? Certezza è invero una parola grossa, perché nemmeno il nome né le origini del paese ne hanno davvero. Più si scava nella storia millenaria di questa cittadina raccolta attorno alla sua torre normanna e più si trova infatti la favola. Fu la mitica Engio dove Ulisse pregò gli dei sicani? Fu l’altrettanto introvabile Imachera distrutta dai Saraceni? Vi passò Enea e la chiamò come la sua Troia? Di certo fu capitale della Sicilia di Ruggero che vi stabilì il suo quartier generale nella guerra ai Saraceni, portandovi pure la moglie. Forse credette la popolazione mite come il paesaggio, ma avrebbe fatto meglio ad aguzzare la vista e guardare con più attenzione l’Etna stagliata sullo sfondo, a volte a un passo e a volte lontanissima per un effetto di fata morgana, per capire che gli abitanti erano alimentati dallo stesso fuoco.
I suoi soldati, normanni e perciò belli, conquistatori coscienti di piacere per le loro virtù cristiane e belliche non meno che per le loro doti maschili, cominciarono a mettere gli occhi sulle donne del paese e dalle mogli passarono a “manomettere” (termine del Fazello) pure le figlie vergini: con grande scorno di mariti e padri che misero mano ai forconi per assalire il castello, sostenuti dai Saraceni che in tali circostanze si trovarono a difendere una morale che era loro proprio estranea. Ruggero stesso per poco non rimase ucciso, ma riportò la calma ordinando alle sue truppe di non manomettere più nessuno e scoprì che i troinesi erano disposti a tollerare ogni dominazione sulla città ma nessuna libertà in casa propria.
Fu anche il sangue colore della lava a meritare a Troina privilegi reali e “esenzione da ogni censo e gravezza”? A camminare per i vicoli in saliscendi del paese e a vedere i volti di una popolazione la cui antichità vi è circonfusa tra le rughe, la sensazione è di essere fuori posto o in un posto fuori luogo: i troinesi appartengono per stirpe a quella Sicilia lombarda che Elio Vittorini immaginò proprio tra l’Etna e i Nebrodi, ragione per cui più che Troina sono i troinesi da visitare per distinguere in essi i tratti normanni da quelli saraceni che si sommano e si scontrano in una guerra biometrica mai finita, sospesi come sono in bilico sugli abissi della storia, così come si tengono in equilibrio tra Parco dell’Etna e Parco dei Nebrodi, sentendosi un po’ catanesi, un po’ messinesi e niente affatto ennesi della stessa provincia.
Sono contadini, ma sono carichi di storia e ospitano mostre esclusive come per Rubens e Tiziano, hanno un patrimonio di tradizioni sacre e folcloristiche da riempire l’agenda del turista più esigente, trenta chiese e una passione smisurata per il concittadino San Silvestro, dichiarato partono dopo tre santi protettori decaduti uno via l’altro, ma solo al quarto miracolo e non prima di quattro secoli. Tanto per non smentire la propria coscienza fuori norma. Dopotutto non si sentono un paese ma una capitale. E a buon motivo.
Intressante.